IL PRETORE
    Sciogliendo la riserva di cui al verbale che precede,
                             O S S E R V A
    Il problema centrale della  presente  controversia  e'  costituito
 dall'accertamento della legittimita' costituzionale dell'art. 3 della
 legge 20 maggio 1993, n. 151, che ha convertito, senza modificazioni,
 il d.l. del 22 marzo 1993, n. 71. Appare necessario sottolineare che
 detta  normativa,  definitivamente  introdotta nel nostro ordinamento
 dopo che, per ben sette volte, i dd.-ll. emanati  dal  governo  erano
 decaduti  per  mancata  conversione (il che rendeva inammissibile una
 eventuale rimessione degli atti alla  Corte  costituzionale:  "v.  in
 proposito,  in  riferimento  all'art. 4 del d.l. n. 21/1992, c.c. 29
 ottobre 1992, n. 410"), non appare conforme ai principi sanciti dalla
 Costituzione. Per poter prevenire a tale conclusione  e'  sufficiente
 ricordare che la scelta operata dal legislatore rientra in una logica
 diretta  a  penalizzare  gli  effetti  delle  pronunzie  della  Corte
 costituzionale,  eludendole  sostanzialmente  i  contenuti.   A   tal
 proposito   si  deve  ricordare  che  il  legislatore,  gia'  con  la
 disposizione contenuta nell'art. 6, secondo  comma,  della  legge  30
 dicembre  1991,  n. 412 (cosidetta finanziaria 1991) avente efficacia
 per il 1992, aveva testualmente previsto che "alla regolazione  degli
 effetti  conseguenti  alla sentenza della Corte costituzionale n. 261
 del 12 giugno 1991, si provvedera' in  sede  di  determinazione,  con
 separato  provvedimento  legislativo,  dei criteri e modalita' per la
 esecuzione per l'anno 1992, nei limiti di spesa che  saranno  per  lo
 scopo  stabiliti  dalla  legge finanziaria per l'anno medesimo, dello
 sgravio degli oneri sociali in  favore  delle  imprese  operanti  nei
 territori del Mezzogiorno di cui al testo unico approvato con decreto
 del  Presidente  della  Repubblica  6  marzo  1978,  n.  218". Appare
 evidente, quindi, che la prima volonta' espressa dal legislatore  era
 diretta  a  definire,  soltanto  per il 1992, gli effetti conseguenti
 alla sentenza della Corte costituzionale n. 261/1991, senza  prendere
 in  considerazione  le  situazioni  pregresse.  Tale ipotesi e' stata
 successivamente stravolta dal d.l. 21 gennaio 1992,  n.  14  che  ha
 introdotto  un  nuovo  testo  della  normativa,  secondo il quale "il
 rimborso delle somme a titolo di sgravi degli oneri sociali in favore
 delle imprese industriali operanti nei  territori  di  cui  al  testo
 unico  delle  leggi  sugli  interventi nel Mezzogiorno, approvato con
 decreto del Presidente della Repubblica 6 marzo 1978, n. 218,  dovute
 in  conseguenza  della  sentenza  della  Corte costituzionale n. 216,
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 12 giugno 1991 e relative  ai
 periodi  anteriori  alla  data  di  pubblicazione  della  stessa,  e'
 effettuato, previa presentazione di apposita  domanda,  dall'Istituto
 Nazionale  della  Previdenza  Sociale,  in dieci rate annuali di pari
 importo, senza alcun aggravio per rivalutazione o interessi, entro il
 31 dicembre  di  ciascun  anno,  a  decorrere,  per  la  prima  rata,
 dall'anno  1992.  Non e' consentita la compensazione degli importi di
 cui al presente comma con le  somme  dovute  dall'Istituto  Nazionale
 della  Previdenza  Sociale  ed  esposte  nelle  denunce  contributive
 mensili".
    Appare  evidente,  dall'esame  comparativo delle due norme innanzi
 indicate, la radicale inversione di rotta:  mentre  l'art.  12  della
 legge  n.  412/1991  si  preoccupava,  peraltro  non senza offrire il
 fianco a qualche rilievo, degli sgravi spettanti per l'anno  1992,  i
 cui  criteri  di  riconoscimento avrebbero dovuto essere determinati,
 con  la  successiva  legge   finanziaria,   nell'ambito   dei   fondi
 disponibili, la norma in esame ha per oggetto i crediti gia' maturati
 delle imprese per il periodo antecendente al 12 giugno 1991 e delinea
 per  il  loro  riconoscimento  una  procedura articolata che prevede,
 essenzialmente:
      1) la presentazione di apposita domanda;
      2) il provvedimento dell'I.N.P.S.;
      3) la restituzione del credito  in  dieci  anni,  con  pagamento
 della  prima rata, secondo le previsioni del d.l. n. 14/1992 a circa
 un anno, senza interessi e/o svalutazione e senza la possibilita'  di
 compensare  con  le  suddette  somme  i  debiti dell'imprenditore nei
 confronti  dell'Istituto.  Impostato  in  tali   termini   il   thema
 decidendum, si deve sottolineare quanto appresso: si deve ritenere in
 primo  luogo che la norma de qua appaia in contrasto con il principio
 di eguaglianza, sancito dall'art.  3  della  Costituzione,  sotto  un
 duplice profilo. In primo luogo, perche' attribuisce all'I.N.P.S. una
 posizione di privilegio rispetto a tutti gli altri debitori, che sono
 tenuti,  secondo  i  principi  generali  in  materia  di obbligazioni
 pecuniarie, al pagamento  delle  somme  alla  scadenza  naturale  del
 debito,  rivalutate e comprensive di interessi: inoltre, un ulteriore
 indebito  privilegio  e'  costituito  dal  divieto  di   operare   la
 compensazione  tra  crediti  e  debiti  delle  aziende, specie ove si
 consideri che i debiti di queste ultime per  omissioni  contributive,
 sono gravate da interessi elevatissimi.
    In  secondo  luogo,  la  norma  in  esame  crea  una intollerabile
 discriminazione tra le aziende che  hanno  potuto  beneficiare  degli
 sgravi  e  che  quindi  hanno  potuto disporre delle somme necessarie
 all'esercizio della loro attivita' e quelle che sin qui non ne  hanno
 beneficiato  (illegittimamente);  queste  ultime,  inoltre,  - ove si
 consideri la svalutazione del denaro e gli interessi  passivi  pagati
 per  il  ricorso  al  credito  - vedono oggi posta nel nulla la reale
 portata dello sgravio, che avrebbe dovuto essere  invece  uguale  per
 tutti.
    E'  sufficiente,  del resto, ricordare che la sentenza della Corte
 costituzionale da cui la presente controversia trae origine, si fonda
 proprio sulla rilevata  illegittima  disparita'  di  trattamento  tra
 imprese.  La  norma  che si denuncia, lungi dal rimuovere la rilevata
 disparita' di trattamento e dal  dar  corso  al  decisum  di  codesta
 eccellentissima Corte - e anzi in totale spregio di essa - fa si' che
 molte  imprese che avrebbero dovuto godere interamente del beneficio,
 ne godano con un ritardo tale da determinare un  ingiusto  svilimento
 dello  stesso.  Si  deve  sottolineare, infatti, che data la ampiezza
 dell'arco temporale concesso per il pagamento (oltre dieci anni),  la
 somma  da  corrispondere  non  equivalga  neppure  all'importo  degli
 interessi, attualmente fissato al 10%.
    La  norma  in  questione,  inoltre,  deve  essere  considerata  in
 violazione  degli  artt.  24 e 113 della Costituzione, in quanto dopo
 aver preso atto che il contribuente a seguito  della  sentenza  della
 Corte costituzionale aveva maturato il diritto soggettivo al rimborso
 delle  somme  indebitamente  percepite  dall'I.N.P.S.,  ha  negato al
 medesimo la piena tutela del diritto de quo. Nessuno  puo'  dubitare,
 invero,  che  a  seguito della sentenza della Corte costituzionale n.
 261/1991, sia emerso, in capo  al  ricorrente  un  diritto  perfetto,
 esercitabile  nelle  forme previste dal Codice civile per ottenere la
 ripetizione dell'indebito. Orbene, tale diritto comprende il capitale
 rivalutato, gli interessi e la facolta' di chiedere la  rivalutazione
 della  somma  e ogni altro eventuale maggior danno. Per effetto della
 norma denunziata,  il  cittadino  viene  privato  della  potesta'  di
 chiedere  la  tutela  in  giudizio  delle  sue  posizioni  di diritto
 soggettivo.   Appare,   infine,    discriminante    il    subordinare
 dell'esercizio alla proposizione del giudizio la presentazione di una
 domanda  all'istituto al fine di ottenere la restituzione rateale del
 credito, specie ove si consideri che la norma non ha tenuto  presente
 che in molti casi ci si trova in presenza di una pronuncia giudiziale
 ricognitiva del diritto, anche se non passata in giudicato.
    Ove  si dovesse ritenere, come pure ritiene questo giudicante, che
 le situazioni che hanno formato oggetto di giudizi (ad esempio quelle
 che hanno portato all'emissione della sentenza n. 261/1991  anche  se
 in  senso  contrario  si  e'  pronunziato il tribunale di Bari con le
 sentenze n. 1034/1993 e 1035/1993) non siano ricomprese nelle ipotesi
 legislativa contestata, apparirebbe evidente un ulteriore profilo  di
 incostituzionalita',   in   quanto   si   opererebbe   un  rigime  di
 discriminazione tra coloro  che  hanno  proposto  tempestivamente  un
 giudizio,  anche  in presenza di una norma successivamente dichiarata
 incostituzionale, e coloro che non l'hanno promossa.
    La norma in esame appare, altresi'  in  contrasto  con  l'art.  97
 della  Costituzione,  sotto  il  profilo dell'obbligo di imparzialita
 della    pubblica     amministrazione,     che     appare     violato
 dall'ingiustificata lunghissima rateazione del proprio debito e dalla
 impossibilita'    di    opporre    in    compensazione    i    debiti
 dell'imprenditore.  Infine,  la  norma  appare  in  contrasto  con  i
 principi  di  cui all'art. 41 della Costituzione, che garantiscono la
 liberta' di impresa, il che' costituisce la  ratio  sia  della  legge
 sugli  sgravi  (1089/1968)  sia  la ragione di fondo della piu' volte
 citata sentenza 261 della  Corte  costituzionale.  Sulla  base  delle
 suesposte  considerazioni la questione di costituzionalita' dell'art.
 3 della  legge  20  maggio  1993,  n.  151  appare  rilevante  e  non
 manifestamente  infondata. Si deve ordinare, pertanto, la sospensione
 del presente  giudizio  e  la  trasmissione  degli  atti  alla  Corte
 costituzionale.